Nicholas Green – una vicenda che ha cambiato in meglio la storia dei trapianti

Dal quel 29 settembre di ventitré anni fa, nulla è più stato come prima nel mondo dei trapianti. In Italia, soprattutto, ma anche all’estero. L’«effetto Nicholas», come venne ribattezzato, portò a un aumento considerevole delle donazioni in un’Italia che fino ad allora aveva mostrato diffidenza e indifferenza.

Qualcuno ha anche messo in dubbio il rapporto di causa ed effetto fra l’assassinio del piccolo Nicholas, il gesto dei genitori di donare i suoi organi a sette italiani e l’impennata delle persone che dichiararono la propria volontà di donare e che poi effettivamente lo fecero.

Tuttavia basta dare un’occhiata ai report del Centro Nazionale Trapianti per capire che non fu una semplice coincidenza (nel 1994 i donatori erano 7,9 per milione di abitanti, l’anno dopo 10,1 fino a toccare i 24,3 donatori nel 2016).

Anche dal punto di vista della normativa in materia l’Italia tra il ‘93 e il ‘94 voltò pagina. Il 29 dicembre del 1993, a due mesi esatti dalla morte di Nicholas, arrivò la legge 578 che definiva la morte cerebrale e stabiliva i termini dell’accertamento di morte finalizzato al prelievo di organi. Una legge importante, perché metteva nero su bianco i criteri scientifici in base ai quali si muoveva la trapiantologia.  

“Nel ‘94, i trapianti in Italia si facevano già — racconta Alessandro Nanni Costa, Direttore del Centro Nazionale Trapianti — . Sicuramente grazie a Nicholas Green ci fu tra la gente una fortissima diffusione dell’idea del trapianto. La vicenda del bambino fu importante non tanto e non solo per l’opinione pubblica, ma perché paradossalmente rafforzò la convinzione di chi lavorava negli ospedali: quella trapiantologica non fu più un’attività di nicchia, cominciò ad avere una sua dignità e in qualche modo dei riconoscimenti ».

Di sicuro, il gesto di Meg e Reginald Green scavò nelle coscienze degli italiani e costrinse a riflettere non solo il comune cittadino ma anche politici, amministratori e classe medica. Così il primo aprile del ‘99, la legge 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti) fece nascere di fatto il Sistema Nazionale, introdusse la dichiarazione di volontà a donare gli organi e il Sistema Informativo Trapianti per raccoglierle e renderle disponibili ai rianimatori. L’anno successivo, un milione di cittadini mise nel proprio portafoglio un tesserino cartaceo azzurro con tale dichiarazione.

La legge del 1999 portò l’Italia all’interno di un sistema moderno. «Senza nascondere l’esistenza di criticità — chiosa Nanni Costa — siamo diventati uno dei Paesi con la migliore organizzazione nella donazione, terzi fra i grandi Paesi e dal punto di vista dell’organizzazione e del controllo  siamo forse i primi in Europa. Abbiamo costruito una rete forte che è cresciuta, funziona e fa trapianti ogni giorno. È il primo anno che vediamo una riduzione delle liste di attesa, dopo avere ottenuto una stabilizzazione». Se nel ‘94 il «turismo sanitario» per i trapianti era molto forte, oggi il Centro Nazionale Trapianti assicura che sono forse meno di 20 gli italiani (il dato si riferisce al 2015) che sono andati all’estero per un trapianto.

«Resta ancora una forte immigrazione da Sud a Nord, all’interno del nostro Paese, quindi dobbiamo aumentare i donatori al Sud e ridurre questa mobilità», aggiunge Nanni Costa.

Rispetto a vent’anni fa, anche la trapiantologia è cambiata sotto tanti aspetti e non solo dal punto di vista numerico. Ci sono le nuove frontiere: il fegato trapiantabile a porzioni (split); la donazione di rene tra viventi si sta ormai consolidando; nel 2016 in Italia sono stati effettuati 30 trapianti da donatore a cuore fermo e due catene di trapianti di rene da vivente in modalità cross-over innescate da una donazione samaritana, ovvero da una persona che ha deciso di donare alla collettività e non a uno specifico ricevente o consanguineo che abbia bisogno di un trapianto, senza alcun tipo di remunerazione o contraccambio.

Grazie alla sempre maggiore specializzazione delle tecniche interventistiche e di conservazione degli organi, è aumentato il limite d’età dei donatori utilizzabili fino agli 80 e 90 anni. Cuori artificiali, macchinari per la perfusione degli organi, ingegneria genetica e cellule staminali promettono ulteriori e sbalorditivi traguardi già nei prossimi cinque anni.

Ma se molta strada è stata fatta, molto ancora si può (e si deve) fare. Nel 2016, per la prima volta, la lista d’attesa del rene e quella del polmone sono in diminuzione rispetto all’anno precedente. Ma una lista d’attesa esiste e dunque bisogna aumentare la disponibilità di organi.

C’è da lavorare sul fronte delle Rianimazioni, perché segnalino tutti i possibili donatori e occorre agire anche sul fronte della diffusione della conoscenza e della consapevolezza della gente (il Centro Nazionale Trapianti ha lanciato la campagna “Diamo il meglio di noi”, un’iniziativa dedicata alle grandi organizzazioni pubbliche e private per diffondere tra i propri dipendenti la cultura del dono e limare ulteriormente quel dato del 26% di italiani che dicono di no alla donazione, anche se il dato nazionale è il più basso in Europa dopo quello della Spagna.

C’è chi lo fa quando è ancora in vita, ma l’opposizione arriva soprattutto dai familiari ai quali viene comunque chiesto di esprimersi. «Il familiare si chiede tre cose — spiega Alessandro Nanni Costa —: il mio congiunto è davvero morto? Bisogna saperglielo spiegare perché, al di là del livello culturale, non è facile capire che il proprio caro è morto anche se gli batte il cuore.

La seconda domanda è: avete fatto tutto il possibile per curarlo? Questa è anche una domanda che riguarda il tipo di accoglienza ricevuta in ospedale. Sappiamo che una parte di opposizione nasce per una sorta di negatività o risentimento verso la struttura, anche questo è un dato nazionale. Stiamo perciò lavorando nelle Rianimazioni per la formazione nel colloquio con il familiare che deve sentire una relazione d’aiuto in un momento difficile.

La terza domanda: che vantaggio ottenete con la donazione? Qui bisogna essere credibili come struttura e il sistema trapianti lo é, in termini di trasparenza, regolarità, eticità».

D’altra parte, Reginald Green, il papà di Nicholas, non si stanca di dirlo «Ogni anno migliaia di famiglie in tutto il mondo donano gli organi. Il loro dolore è identico al nostro. Molte – comprensibilmente – dicono “no”. La morte cerebrale è di solito una morte improvvisa – magari per un incidente d’auto, un colpo, o a causa della violenza come nel nostro caso. Non si è preparati a questo, eppure viene richiesto di prendere una decisione irrevocabile su qualcosa cui magari non si è mai seriamente pensato prima. È troppo per molte persone: alcuni rifiutano e se ne rammaricano per il resto della loro vita. Tuttavia, il modo di affrontare questo è, allo stesso tempo, chiaro: abbiamo bisogno di mettere l’idea della donazione degli organi nei pensieri delle persone quando la morte è ancora un concetto distante».

 

Fonte: CORRIERE DELLA SERA /SALUTE