Trapianti renali: nuova terapia limita rigetto

Terapia alternativa limita gli anticorpi riducendo il rischio di rigetto

I risultati di uno studio clinico di tre anni condotto dai ricercatori dell’Università di Cincinnati (UC) suggeriscono che una terapia farmacologica preoperatoria riduca maggiormente gli anticorpi nei pazienti con patologie renali rispetto ai metodi tradizionali, con la possibilità di aumentare la candidatura dei pazienti per il trapianto di rene e diminuire la probabilità di rigetto.

Lo studio appare sul numero di gennaio 2015 dell’American Journal of Transplantation.

Gli anticorpi sono qualcosa che tutti hanno come parte del sistema immunitario. Progettati per la protezione contro agenti esterni, gli anticorpi sono proteine a forma di Y, che nella maggior parte dei casi sono utilissime perché aiutano a combattere le infezioni, ma reagiscono anche contro i tessuti di altri esseri umani e quindi rappresentano un grave ostacolo all’accettazione del trapianto.

Il metodo tradizionale per ridurre i livelli di anticorpi utilizza un prodotto sanguigno di immunoglobuline endovena (IVIG). Praticamente è un tipo di trasfusione che consiste nell’introduzione nel torrente circolatorio del paziente di immunoglobuline ottenute dal plasma di migliaia di donazione di sangue.

Gli studi condotti sinora hanno però dimostrato che tale metodo non è sempre coerente con i risultati attesi soprattutto in gran parte dei pazienti insensibili.

Dal 2008 il team di ricerca dell’Università di Cincinnati è in prima linea nello sviluppo di terapie che hanno come target le plasmacellule (chiamate anche plasmociti, cioè cellule del sistema immunitario che producono grandi quantità di anticorpi).

Queste nuove terapie utilizzano il bortezomib, un farmaco chemioterapico inibitore del proteasoma approvato dalla FDA per il trattamento del mieloma multiplo nell’uomo.

In questo studio (primo nel suo genere), 50 candidati al trapianto di rene con elevati livelli di anticorpi sono stati trattati con il nuovo regime.

I tassi di rigetto sono risultati molto più bassi, così come le possibilità di sviluppo di anticorpi “de novo” contro i reni trapiantati. Inoltre, in alcuni pazienti, gli anticorpi sono rimasti soppressi per diversi mesi. “Qualcosa che non era stata mai precedentemente descritta con altri approcci”, spiega Woodle, primo autore dello studio.

In un editoriale di accompagnamento, Klemens Budde, a capo del programma di trapianto presso il centro Charité-Universitätsmedizin di Berlino, afferma che: “Lo studio fornisce la prima prova per una nuova strategia di desensibilizzazione nei pazienti immunizzati in lista d’attesa”.

Woodle ritiene che lo studio sia molto rilevante perché ha il potenziale di cambiare il modo con cui ci si avvicina al trapianto di rene, aggiungendo: “Questo può portare un beneficio dal 10 al 20% anche per i pazienti candidati al trapianto di cuore e di pancreas che spesso hanno livelli di anticorpi talmente alti da rendere il trapianto quasi impossibile”.

In conclusione, la desensibilizzazione basata sull’inibizione del proteasoma, non solo è in grado di ridurre il livello di anticorpi HLA, ma ha anche un effetto duraturo nel tempo fornendo un’alternativa alla tradizionale desensibilizzazione del sistema immunitario con immunoglobuline per via endovenosa.

Entro il 2015, presso l’Università di Cincinnati, saranno valutati quattro nuovi regimi terapeutici, descritti da Woodle come “terapie cellulari mirate al plasma di seconda generazione”.

Questi studi saranno inoltre integrati da ricerche meccanicistiche con il centro di oncoematologia della stessa Università, in collaborazione con James Driscoll, membro del Cancer Institute di Cincinnati.

La convinzione è che da questa ricerca traslazionale possano nascere approcci terapeutici utili sia a pazienti con anticorpi candidati al trapianto, sia al perfezionamento del trattamento per i pazienti con mieloma multiplo.

Bibliografia.Woodle ES, Shields AR, Cardi MA, et al. Prospective iterative trial of proteasome inhibitor-based desensitization. Am J Transplant. 2015; 15(1):101-18.

Link all’articolo originale su Trapianti.net