Rodolfo – The King

Succede che ci sono eventi che si fanno attendere per una vita. Eventi dal quale dipende l’intero corso di una esistenza messa in pausa all’improvviso e per troppo tempo da un ostacolo imprevisto e difficile da superare.
Succede che quell’evento, quando meno te lo aspetti, arriva, spiazzando la tua inconsapevole esistenza proprio nel momento in cui non te lo saresti mai aspettato, sconvolgendo, di fatto, la convinzione (o forse sarebbe meglio dire la certezza) che quell’attimo non sarebbe mai più arrivato. Questo è quello che è mi successo. L’evento che senza troppi giri di parole, mi ha ridato la vita.
Giovedì 10 ottobre 2008 ore 21.30 circa. Mi trovavo a casa, nella mia camera, intento a metà tra una telefonata ed uno sguardo fugace alla tv. Squilla il telefono in cucina. Sento mio padre rispondere e che dopo pochi secondi mi chiama. E’ LA FATIDICA TELEFONATA: il Reparto Chirurgia Trapianti del Policlinico di Napoli che mi vuole. C’è un rene compatibile e bisogna andare, di corsa. Ci siamo. Finalmente.
Prendiamo al volo quella valigia già pronta da un pezzo e nel panico più assoluto partiamo. Mio padre alla guida è agitatissimo, ci mettiamo poco meno di 20 minuti ad arrivare. Sbagliamo l’ingresso dell’ospedale e per fare il prima possibile, per poco mio padre per poco non centra i divisori in cemento che separano le corsie delle vie interne dell’ospedale. Arriviamo al reparto e senza perdere tempo mi portano subito nello studio del medico di turno. Pressione, prelievo, elettrocardiogramma e visione delle ultime analisi fatte. Faccio tutto e all’uscita, conosco l’altro convocato in lizza per l’organo: un signore di 57 anni alla sua quinta chiamata! Aspetto che anche lui si sottoponga alla mia stessa prassi e poi via, di corsa insieme ad un infermiere a fare la visita cardiologica ed una radiografia al torace. Lo sbattimento mi provoca un aumento di tensione ed io, che già avevo lo stomaco sottosopra sin dal pomeriggio, non riesco proprio a reggerlo, tant’è vero che una volta in radiologia, scappo in bagno a vomitare. Fu una liberazione.
Leggero, come una piuma e con un peso in meno sullo stomaco, torniamo in reparto, dove ci sistemano in una stanza per passare le poche ore della notte con le nostre famiglie, in attesa di continuare le visite all’indomani.
Quella stanza, sarebbe stato dopo l’intervento il “tugurio” ove trascorrerò in isolamento i miei primi 4 giorni da trapiantato.
Non ci volle molto per far arrivare le 6 del mattino, ora in cui io e il mio compagno/concorrente di ventura veniamo sottoposti ad altri prelievi di sangue e successivamente accompagnati in emodialisi per espletare una rapida seduta di un paio d’ore. L’ultima dopo 16 mesi di dialisi effettuate ogni santissimo giorno disparo della settimana. Fatto ciò, ci riportano in reparto dove ci attende il chirurgo che effettuerà l’intervento per darci il fatidico verdetto. Il dottore con maniera e determinazione ci spiega sin da subito che eravamo entrambi molto compatibili, ma che tra i due il prescelto per l’operazione di trapianto sarei stato io.
Sono le 10 e 30 di venerdì 10 ottobre 2008. Una data che difficilmente dimenticherò nella mia vita. Una data che segnerà per sempre la mia seconda venuta al mondo.
Accorre subito un infermiere che procede alla depilazione dell’addome. Poi la disinfezione da solo in bagno. Non faccio in tempo neanche ad infilare di corsa un pigiama che fuori mi attende l’infermiere che mi accompagnerà verso l’area delle sale operatorie. Mi lascia in uno stanzino dove faccio un rapido e cordiale colloquio con l’anestesista e poi via, verso la fatidica camera verde.
I dottori sono tutti abbastanza giovani. Mi sento a mio agio, tranquillo e determinato. Steso sul lettino e coperto solo da un panno verde, mentre mi fissano nel polso l’attacco per le flebo, osservo le due potenti luci che m’illuminano dall’alto. Ho un riflesso imprevisto, istintivo. Prego Dio, gli chiedo che ora che sono nelle sue mani, di assistermi e di far si che tutto vada per il meglio.
Nel frattempo l’anestesia è oramai entrata già tutta in vena. Pian piano mi addormento. Di colpo un grande buio, come quando si spegne il televisore e si rimane ad osservare lo schermo nero.
I giochi sono fatti. Si và. Sono le ore 11.00 circa.
Di tutto ciò che è accaduto da lì in poi, ho solo ricordi sbiaditi:
– gli infermieri che di peso mi spostano dalla barella al lettino della terapia intensiva…
– risvegli e cadute improvvise nel sonno…
– i crampi di dolore che mordevano a momenti improvvisi sul fianco…
– una voce che mi diceva di premere sulla ferita quando sentivo dolore…
– un’altra voce che mi comunicava che l’intervento era finito alle 13.00…
– la sensazione al tatto della enorme garza che ricopriva la ferita…
– l’ennesima voce che mi rassicurava sulla riuscita dell’intervento.
La voce che però mi ha maggiormente colpito e che mi ha dato la vera portata di ciò che era successo, è stata quella di una infermiera che mi comunicava che il rene aveva cominciato a lavorare sin dalla fase di innesto in sala operatoria, tanto da aver prodotto, nelle 24 ore successive all’operazione, 4 litri di urina!
Ad ogni modo, riesco a chiamare i miei genitori solo verso mezzanotte, grazie al cellulare di Anna, l’infermiera di turno alla sala. Data l’ora, erano a letto ma non riuscivano a dormire. Ricordo la loro voce, la commozione fortissima, una felicità indescrivibile che trasmisero anche a me che ancora non mi rendevo esattamente conto dell’accaduto. Li tranquillizzo come posso, li saluto e ricrollo ancora in un sonno profondo.
L’indomani soliti prelievi del primo mattino. Riposo ancora un po’. Vengo svegliato da un paio di infermieri che mi comunicano di dovermi spostare dalla terapia intensiva alla sub-intensiva di reparto, il famoso “tugurio” citato in precedenza.
Ho passato nel tugurio 4 giorni di isolamento, di cui i primi 2 sono stati veramente di merda, mentre gli altri 2 sono riuscito trascorlerli in un discreto agio, grazie soprattutto allo spirito di sopravvivenza maturato nei miei 10 anni di vita militare, anni in cui ho imparato ad arrangiarmi ovunque ed in qualsiasi situazione, ma soprattutto, a resistere alla noia e alla solitudine chiuso per molto tempo tra quattro mura.
Lì dentro di giorno si moriva dal caldo, per cui tenevo acceso il condizionatore per trovare un po di pace, mentre la notte era un vero e proprio supplizio riposare, per via della sistemazione assolutamente disumana che mi avevano dato: il materasso del letto era deforme e assolutamente scomodo.
La prima notte ho avuto dei dolori di schiena talmente lancinanti da sfiorare il pianto, molto piu forte dei dolori post-operatori, a cui gli infermieri hanno sempre fatto spallucce consigliandomi semplicemente di cercare la posizione giusta. Se non fosse stato per la enorme determinazione che mi arrivava dalla consapevolezza di quello che mi era successo, non so cosa sarei stato capace di fare. Nel tugurio, dopo aver passato tutto il sabato al letto, la domenica mi è stata levata la flebo dal polso ed ho cominciato pian piano ad alzarmi in mezzo al letto, poi ad a toccare con i piedi il pavimento ed infine a camminare. Con la panciera che teneva fermo l’addome e con la mano destra che sorreggeva i sacchetti del catetere per l’urina e del drenaggio del linfocele, provavo a camminare a fatica, tenendo la schiena dritta. Anche lì il recupero è stato da record, sostenuto soprattutto da questa grande linfa vitale che motivava la mia volontà e che mi spingeva costantemente oltre i miei limiti. Ovviamente non ho avuto contatti ravvicinati con nessun parente, solo con i miei genitori e con un paio di zii a cui però ho parlato attraverso il vetro.
Dal lunedì ho cominciato a mangiare cose preparate a casa su consiglio del nefrologo primario e, soprattutto, a bere. Quel momento è stata una vera apoteosi. Ricordo che la prima bottiglietta d’acqua che ho potuto bere per intero, l’ho buttata giù tutta d’un sorso, con la mano che mi tremava per la soddisfazione. Dopo cira un mese di degenza sono stato finalmente dimesso e restitutito alla vita normale.
Solo chi come me è stato in dialisi, leggendo queste righe potrà comprendere cosa possa voler dire tutto ciò che ho raccontato….

_________________
Le malattie non si devono temere. Si devono conoscere.

Un commento

  • Cinzia ha detto:

    Complimenti, ottima esposizioni, si capiscono tutte le emozioni.
    Spero avvenga presto per il mio compagno… anche se è solo all’inizio.
    Grazie

Rispondi