Vita e Poesie

La storia di Rossella

Una ragazza di 18 anni, in una città del Nord, con una gran fretta di crescere ed essere autonoma dalla famiglia. Frequentavo il liceo classico, le idee sulla scelta della professione futura erano ancora confuse, oscillavo tra l’idea di diventare avvocato, medico o psicologa per bambini. Alla fine scelsi la scuola per infermieri professionali, con l’intento di proseguire gli studi in seguito.
Per accedere a tale corso era necessario fare degli esami del sangue. Fino allora non avevo avuto particolari problemi di salute, l’ultima cosa che mi aspettavo era di essere ricoverata all’improvviso perché c’erano dei “problemi ai reni”.
Avevo paura, anche del dolore fisico, dicevano che dovevo fare una biopsia renale, da sveglia, avrebbero preso un pezzetto del mio rene per analizzarlo. Fu accertato che soffrivo d’ipertensione arteriosa e anemia che necessitavano di costanti terapie farmacologiche. Dalla biopsia fu accertato che c’era un’insufficienza renale in stadio avanzato, la prognosi non era molto favorevole. Inoltre avrei dovuto seguire una dieta rigida, con esclusione della maggior parte degli alimenti (pasta, latte, formaggi, dolci, ecc.…).
Mi fu detto che, probabilmente, la malattia sarebbe evoluta velocemente verso la dialisi e che non dovevo assolutamente avere dei figli.
Sto parlando di 20 anni fa, non c’era l’attuale esperienza rispetto alla dialisi, l’unica scelta possibile era l’emodialisi e non si parlava di trapianto come di una prospettiva sufficientemente veloce ed accessibile a tutti.

18 anni……l’età in cui avrei conquistato la libertà e l’autonomia……invece mi si prospettava una vita fatta principalmente di rinunce. Protagonista della mia vita non sarei più stata io, bensì una subdola malattia cronica, non prevista e non prevedibile nel suo esito. Non stavo per morire, ma non potevo guarire. Non potevo pensare alle mie scelte professionali senza sentirmi dire “questo non lo puoi fare”. Ogni mattina, appena sveglia, il primo pensiero era per questa sorta di “spada di Damocle” che sentivo costantemente presente, lì, ad impedirmi di vivere serenamente.
La presi molto male. Non ricordo che in ospedale fosse previsto qualche sostegno psicologico, in ogni caso io non mi ero sentita accolta, ciò che avevo sentito erano per me solo freddi ordini (non fare, non mangiare, non pensare al perché).
Era tutto così medico.
Non ero più una persona, ero diventata una malattia.

PREGHIERA
Aiuta
questo cuore
a non cedere
alla lusinga ammaliante
di fermare il proprio tempo
Soccorri
quest’ anima sola
ormai immune
ad ogni tentazione
Accetta in dono
questo violento dolore
e trasformalo
in propositi vitali

Ci fu un lungo ricovero, ma fui ammessa ugualmente al corso di studi e mi ci dedicai con abnegazione. Era l’unico “segnale di ritrovata normalità”.
Facevo fatica a fare regolarmente i controlli, a rispettare la dieta. Era difficile gestire la situazione, sia in casa sia con gli amici. In famiglia trovavo un atteggiamento ambivalente: si raccomandavano di rispettare la dieta quando uscivo con gli amici a cena, ma quando ero a casa il menù era davvero troppo diverso dalle mie esigenze dietetiche. Sentivo umiliante dover far cuocere a parte la mia pasta aproteica, figuriamoci far cucinare una torta aproteica. Ed ogni volta che mangiavo qualcosa di “proibito”, perché succedeva, mi sentivo ancora più sola. Anche la mia famiglia non era preparata, non sapeva come affrontare questo problema. Gli amici mi capivano un po’ di più, ma odiavo sentirmi diversa da loro.
Ogni volta che ritiravo gli esiti degli esami, mi aspettavo che mi dicessero di essersi sbagliati, che andava tutto bene. Altre volte sembrava quasi che “sperassi” in un peggioramento della malattia, così non avrei più dovuto portare quel peso da sola, sarebbe finito tutto nelle mani di qualcun altro.
Quest’ambivalenza era la risposta all’ambivalenza di chi mi circondava, ed andò avanti per molti anni. Ho reagito così, fuggendo dalla malattia, sfidando tutto e tutti, impegnandomi, a scuola prima e nel lavoro dopo, più degli altri, senza che questo fosse necessario. Non era importante il rischio che correvo stancandomi di più, contava solo il bisogno di sentirmi forte e di dimostrare la mia forza.
Non ci fu, com’era stato “predetto”, l’evoluzione rapida verso la dialisi. Questa situazione andò avanti per 14 anni. Furono 14 anni che sentivo regalati, che mi hanno almeno permesso di diventare brava nel mio lavoro. Perché poi, alla fine, tutto ha un prezzo. Probabilmente un’accoglienza migliore, da parte delle strutture sanitarie, quando avevo 18 anni, avrebbe migliorato il decorso di quella malattia, può darsi che avrei evitato per tutta la vita la dialisi. Ma può anche darsi di no, che l’evoluzione clinica sarebbe stata la stessa. Di una cosa sono certa: quei 14 anni avrei potuto viverli con consapevolezza, senza sensi di colpa, avrei potuto evitare molti errori nelle mie scelte di vita. Avrei sofferto molto meno e quel prezzo che c’è da pagare sarebbe stato senza dubbio più basso.
Quando la situazione peggiorò avevo 32 anni. Mi ero trasferita da pochi mesi in un’altra città, quasi d’istinto, sperando che cambiare luogo potesse cambiare anche la realtà. In occasione di un ricovero urgente, scoprii che la situazione si era aggravata velocemente, nell’arco di due mesi. Ero molto restia nel credere di dover affrontare sul serio il “problema dialisi”. La spada di Damocle adesso era diventata realmente pericolosa, la dialisi non era più uno spettro ma la mia realtà. Quindi non ero invulnerabile o quasi miracolata, bensì un’irresponsabile che non aveva saputo curarsi. Le mie resistenze ad accettare di essere curata da qualcuno erano davvero molte. La malattia renale, come molte altre, è una di quelle patologie che coinvolgono tutti gli aspetti della vita. Come dicevo all’inizio del mio racconto, non si sta per morire ma non si può guarire. E non ci si può permettere, mai, di spostare l’attenzione da se stessi. Quando arriva la dialisi c’è un estremo bisogno di sapere tutto, il come, il dove ed il perché bisogna accettare l’umiliazione della resa. Io la vivevo così, come una resa, un’irreparabile sconfitta. Ed essere una donna credo che abbia complicato di molto le cose. Così cominciai a voler sapere proprio tutto, quanto faceva male, quanto durava, se la gente mi avrebbe indicata dicendo “guarda, quella è una dializzata”. In realtà quello che pensavo veramente era che la mia vita stava per finire.

MIRACOLO
Voglia di gridare
Fame d’aria
Bisogno di vita che vive
E la forza ritorna
Ad infondere calore
In un corpo ormai esausto
Essenza di vita
Così rara e preziosa
Resta ancora il tempo
Per ridare colore
Al grigio dell’indifferenza

Successe una cosa che non mi aspettavo:trovai una buona accoglienza dal punto di vista umano, sia da parte dei medici sia delle infermiere. Furono sinceri, rispondendo alle mie domande in modo realistico, dedicandomi tempo e pazienza. Trovai attenzione agli aspetti della mia vita e a come conciliare la malattia, la dialisi, l’incertezza del futuro, con i miei impegni, gli affetti, il mio carattere cocciuto. Mi sentivo di nuovo una persona. Fu uno shock, sicuramente, ma qualcuno adesso divideva con me quel peso, almeno in ospedale. Perché fuori dell’ospedale ero praticamente sola, soprattutto grazie all’atteggiamento che avevo avuto in tutti quegli anni. Ma sentivo la presenza degli operatori sanitari nella mia vita, sapevo che avrei potuto telefonare ed avere una risposta a dubbi, paure. Si sono presi cura di me. Hanno saputo trovare la chiave per entrare. Perché io penso che sia questo il giusto approccio verso la malattia, chi è malato ha dei bisogni inimmaginabili rispetto a chi è sano. Inoltre nell’avvicinarmi alla dialisi per me è stato importantissimo poter scegliere tra emodialisi e d. peritoneale. Essendo giovane e senza gravi patologie correlate, ho potuto scegliere la peritoneale, che mi è stata anche consigliata e spiegata nel dettaglio. Viste le mie esigenze di lavoro mi è stata data la possibilità di scegliere la peritoneale notturna, eseguita a casa mia, da sola, dopo un addestramento in ospedale ed una verifica da parte loro sull’adeguatezza della mia casa. Tra l’altro allora avevo due gattine, di cui una incinta, ed un cane. Abbiamo ragionato anche su questo ed abbiamo trovato il modo di lasciare che restassero in casa con me, con le dovute precauzioni. Tutte queste cose hanno soddisfatto il mio bisogno di continuare a sentirmi autonoma e di delegare agli altri solo l’indispensabile. E’ stata dura, sicuramente, ma finalmente ero protagonista e consapevole nella cura di me stessa, affiancata e sostenuta da persone che, pur avendo il camice bianco, mi chiedevano anche come andava il mio lavoro, la mia vita affettiva, mi permettevano di piangere standomi vicino in silenzio. Si è parlato da subito di trapianto. Posso dire che ne sapevo ben poco, mi sono fidata degli operatori sanitari ed ho intrapreso quella che sentivo come un’avventura piena d’incognite. Non credevo assolutamente di potercela fare. Sono stata molto fortunata.

Dopo 1 anno ½ di dialisi è arrivato il trapianto, che sta andando bene. Oggi, se volessi, potrei anche avere dei figli. Per questo, un paio d’anni fa, ho deciso che era ora di parlarne, ma sul serio. Parlare di ciò che significa ricevere il dono di un trapianto, confrontarsi con quella che è una “nuova dimensione di vita” che VA ASSOLUTAMENTE CONDIVISA perché nessuno, mai, debba sentirsi solo.
Da qui l’idea di far nascere qualcosa di nuovo, che non fosse un’associazione, che non richiedesse quote d’iscrizione, che avesse come presupposto irrinunciabile l’assoluta LIBERTA’ d’espressione. Internet mi è sembrata la via di comunicazione più veloce, perché diffusissima tra i più giovani, perché non obbliga nessuno ad indicare il proprio vero nome, perché permette di contattare velocemente le persone in tutta Italia. Così è nato il gruppotrapiantati@yahoogroups.com . Poi l’incontro con Vittorio, trapiantato di cuore che vive a Roma, e la nascita di questo sito.

IL RISCATTO
Tra pianto e risa
muti
gabbiani soli
fievoli planano
su un sé irriconoscibile
gratificato
per l’avvenuto riscatto
A dispetto
di un presunto destino

Per concludere, tengo molto a dire che io non so se il mio trapianto durerà quanto la mia vita, ma so di poter fare molto perché questo accada. E se non dovesse accadere so di poter contare sulla consapevolezza acquisita in questi anni. Quello che mi auguro con forza, è che gli operatori sanitari non smetteranno mai di crescere,
professionalmente ed umanamente, perché è questa la nostra vera speranza.
Il mio percorso di crescita, rispetto alla malattia, è stato molto doloroso. Sono convinta che si possa crescere ugualmente ed anche di più, con molto meno dolore. Perché questo sia possibile, perché ci sia una reale e consapevole crescita, è necessaria la presenza degli “altri” e che questi “altri” riconoscano il valore della solidarietà, si sentano partecipi del diritto – dovere di ESSERCI.

Oggi, ho finalmente ritrovato me stessa e le mie passioni. La passione di leggere, che adoro, amo i bei films, il grande Totò, l’indimenticato Massimo Troisi.
Amo la vita, anche se la critico continuamente, anche se vorrei poter vedere un mondo più ricco d’amore, tolleranza….speranza….
Amo sperare nelle persone che fanno qualcosa di concreto per ridare dignità ad altre persone che l’hanno persa, magari perché nate in Paesi del Sud del mondo, o nella famiglia “sbagliata”, nella città sbagliata; alle persone afflitte da un handicap fisico, sociale, morale, da una malattia, da un pregiudizio. Perché i motivi per sopraffare qualcun altro sono davvero troppi. E’ necessario mettersi alla ricerca dei motivi che possono spingere ognuno di noi ad amare e donare.

ROSSELLA
Trapianto di rene nel ’97 a Bologna

Nata nel 1964 a Torino,
in una domenica pomeriggio “temporalesca”, così come un po’ è stata poi la mia vita!

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